Eleonora Camilli/www.inail.it – www.redattoresociale.it.

“Morire di lavoro” è l’ultimo film documentario del regista, che affronta il tema del lavoro nei cantieri edili di quattro regioni italiane: Campania, Lazio, Piemonte e Lombardia. Il film è prodotto e diffuso dalla casa di produzione dello stesso Segre “I Cammelli” e sta girando l’Italia da Nord a Sud

ROMA – Un viaggio alla scoperta dei luoghi oscuri del mondo del lavoro raccontato attraverso la testimonianza degli operai che vivono la quotidianità dello sfruttamento e dei familiari di quanti sul lavoro hanno perso la vita. E’ “Morire di lavoro” il film documentario del regista Daniele Segre.

Sono molte le storie, anche drammatiche, raccontate nel suo film. Tra tutte colpisce la testimonianza della signora Franca Mulas che nel giro di un anno ha perso in due incidenti sul lavoro sia il marito che il figlio. Quanto è stato difficile raccontare il dolore e la rabbia dei familiari delle vittime?
Si è trattato di un viaggio difficile nella sofferenza, che non ho voluto, però, spettacolarizzare. L’uso del mezzo audiovisivo è problematico e in alcuni casi prevale il cinismo. Il mio cinema è sempre stato, invece, dalla parte delle persone. L’argomento lavoro riguarda tutti e con questo approccio ho affrontato il film. Non potevo permettermi di scadere su forme ed espressioni che non appartengono alla mia storia di regista. Niente didascalismo, ideologia o propaganda; si è trattato di incontri tra persone che potevano così testimoniare e riflettere con la speranza che quanto capitato a loro non capitasse poi ad altri. Ci sono stati anche momenti molto difficili, soprattutto quando il racconto era affidato alle madri o alle mogli degli operai morti, momenti in cui ho spento la telecamera. Ritengo che ci sia un confine che non deve essere superato, per rispetto verso persone che vivono un dolore profondo e una profonda solitudine.
Un regista deve dare un contributo al proprio paese. I miei film possono sembrare di denuncia, ma il loro obiettivo è aprire il pensiero, far riflettere, perché ognuno possa elaborare una sua strategia e sia in grado così di approdare a una risposta.

Accanto alle storie dei familiari delle vittime c’è nel film uno spaccato sulla vita degli operai. Lei racconta la quotidianità di chi lavora nei cantieri, in condizioni talvolta disumane e mettendo anche a rischio la propria vita.
Il mio non è un film sulle morti bianche. E’ un film sul lavoro. Sulla dignità, sull’orgoglio, ma anche sulla cultura e la voglia di lavoro, che è un elemento fondante dell’esistenza dell’uomo e di ogni paese che si rispetti.
Non avrei voluto fare un film su questo argomento ma ci sono stato costretto. Volevo far capire il contesto, far vedere le situazioni di grave illegalità in cui si verificano gli incidenti che tolgono la vita alle persone o le rendono invalide, facendo loro perdere l’identità professionale. Ma volevo anche testimoniare l’amore per il lavoro. Ho preso in considerazione l’edilizia e sono rimasto colpito da alcune testimonianze di orgoglio per il proprio lavoro, malgrado la fatica, l’usura e lo sfruttamento.

Il film è anche un viaggio nelle diverse regioni italiane (Campania, Lazio, Piemonte e Lombardia) alla scoperta delle realtà in cui di lavoro si può anche morire. Che tipo di differenze ha notato tra il Nord e il Sud del paese?
Gli elementi di diversità che ho visto sono soprattutto relativi alle tipologie umane che ho incontrato. Nel film vengono fuori i mille colori dell’Italia. In ogni caso l’elemento diffuso è l’illegalità, un dato comune da Nord a Sud, che si differenzia soltanto per le modalità.
All’illegalità corrisponde una totale mancanza di protezione e una sottomissione psicologica dei lavoratori: incidenti che non vengono denunciati, operai che si mettono in malattia per non aspettare l’indennizzo dell’INAIL mentre hanno invece bisogno di soldi. Oppure perché se ti metti sotto infortunio puoi correre il rischio, una volta tornato in cantiere, di trovare la lettera di licenziamento.
A mancare è anche una cultura della sicurezza. Spesso per la fretta non si seguono le regole che garantiscono la tutela e l’incolumità, oppure si sottovaluta il rischio, soprattutto quando si ha più esperienza.
Capita anche che ai lavoratori venga fatto firmare un foglio in cui è scritto che hanno ricevuto la formazione e i dispositivi di sicurezza, ma in molti casi si devono comprare da soli le scarpe o i guanti.
E’ il “Dio fretta”, come dice una persona nel film, a determinare il battito del cuore nei luoghi di lavoro, tutto il resto non conta. Si tratta di una tragedia sociale che esprime un forte grado di inciviltà del nostro paese.

Che tipo di distribuzione ha avuto finora il suo film?
Il film nasce da una mia personale indignazione. Da anni cercavo di attivare una collaborazione con una rete televisiva, ma ho incontrato sempre rifiuti, anche dolorosi, dal servizio pubblico. Ho deciso quindi di farlo con la mia casa di produzione “I cammelli”.
Il progetto si è concretizzato a partire dall’autunno del 2006, e il film l’ho girato nell’arco del 2007; poi i fatti della Thyssen Krupp mi hanno fatto accelerare i tempi. “Morire di lavoro” non ha avuto, comunque, nessun passaggio televisivo, malgrado gli appelli dell’associazione Articolo 21. Il film lo sto distribuendo io ed è arrivato così in tutte le regioni. Le richieste arrivano all’indirizzo email moriredilavoro@gmail.com e noi gestiamo la diffusione.
Il 12 febbraio c’è stata l’anteprima alla Camera dei deputati e a marzo il film è stato presentato a Strasburgo al Parlamento europeo. Da allora continuano le proiezioni; ho girato dalla Sicilia al Trentino riscuotendo un grande interesse in ambiti molto diversi, che vanno dall’associazione nazionale dei costruttori edili, al sindacato, alle scuole professionali.
Il film è stato proiettato nell’ambito di molte iniziative pubbliche, per esempio a Mineo e a Taranto, ma anche in alcune università o negli eventi legati a corsi di formazione sulla sicurezza promossi anche dalle INAIL regionali.
I riscontri mi hanno permesso di fare una verifica necessaria per capire se questo film poteva servire come stimolo di riflessione in una prospettiva di educazione e sensibilizzazione al tema della sicurezza nei luoghi di lavoro. Il motivo principale del mio lavoro è produrre cultura: siamo stati invasi dalle richieste per il film e questa è la cosa che mi gratifica di più.